24/11/2020
Sono queste le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 26554/2020, depositata il 23 novembre scorso, che nel rigettare il ricorso del contribuente ha ritenuto del tutto irrilevante la presunta “buona fede” invocata dal lo stesso a sostegno della propria innocenza fiscale.
Nella fattispecie, l’Amministrazione finanziaria notificava n. 3 avvisi di accertamento al contribuente (venditore seriale su ebay), per il tramite dei quali recuperava a tassazione i proventi derivanti, giustappunto, dalle operazioni di vendita degli orologi on line.
Con ciò, imputando a quest’ultimo di aver svolto, senza adempiere ai connessi e necessari obblighi fiscali (dichiarazione inizio attività, emissione fatture di vendita, presentazione dichiarazioni dei redditi), una vera e propria attività commerciale caratterizzata dal requisito principale dell’abitualità.
Il contribuente contestava le pretese, con esito negativo in entrambi i gradi di merito, evidenziando, in primis, profili di infondatezza afferenti il quantum della ricostruzione accertativa, e, in via generale, ponendo in risalto il fatto che la sua buona fede lo aveva indotto a considerare come fiscalmente irrilevante quella serie di operazioni che - in maniera sistematica - realizzava per il tramite della piattaforma telematica.
Da qui, a suo parere, la manifesta illegittimità dell’avviso anche e soprattutto in relazione alle sanzioni comminategli, non potendosi ritenere il comportamento dell’ufficio accertatore coerente con il disposto di cui all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei Diritti del Contribuente (Legge n. 212/2000).
Disposizione, quest’ultima, che prevede il divieto dell’irrogazione della sanzione, allorquando si evinca che la violazione perpetrata dal contribuente sia stata dettata da “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria.”.
Non soddisfatto delle decisioni giunte dalle Corti territoriali (provinciale e regionale), il “venditore digitale” si rivolgeva, in cerca di migliori risultati, al giudizio del Massimo Consesso.
Anche qui, purtroppo per lo stesso, con esito nefasto.
Confermando in toto le sentenze impugnate, i Giudici di vertice - dopo aver dato ampio riscontro circa la fondatezza del calcolo effettuato dai verificatori in merito alla presunta materia imponibile sottratta a tassazione - si sono allineati alle decisioni appellate anche con specifico riferimento alla parte relativa alla contestazione inerente l’illegittimità delle sanzioni irrogate.
Con mirabile esame dei principi giuridici posti a base della disposizione normativa invocata dal contribuente (art. 10, comma 3, Legge n. 212/2000), la Corte Suprema ha, difatti, ritenuto pienamente legittime le sanzioni comminate dall’ufficio, ritenendo a tal proposito che: “Ai fini della responsabilità per le sanzioni, è sufficiente la coscienza e la volontà della condotta senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza.”.