processo tributario

LA PRODUZIONE DEI DOCUMENTI NEL PROCESSO TRIBUTARIO

31/05/2016


Nel processo tributario, il deposito di documenti ad opera delle parti trova il proprio inquadramento giuridico nella disposizione di cui all’art. 32, comma 1, D. Lgs. n. 546/92, per ciò che attiene al primo grado di giudizio, e di cui all’art. 58, comma 2, stesso decreto, per quel che riguarda la fese del gravame.

La prima delle due disposizioni menzionate, afferma che “Le parti possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione, osservato l’art. 24, comma 1.”.

La seconda, che al primo comma si occupa di disciplinare il divieto di nuove prove in appello, sottolinea che, sempre in tale fase di giudizio, “E’ fatta salva la facoltà di produrre nuovi documenti”.

Orbene, evidenziato quello che rappresenta il dettato normativo circa la produzione di documenti nel rito tributario, cerchiamo ora di capire, insieme, la portata di queste due norme, le quali, il più delle volte, rappresentano l’una l’antecedente logico dell’altra, e, ancora più importante, la loro concreta applicazione da parte dei giudici tributari nella prassi recente.

Tutto questo, anche alla luce della recente sentenza n. 255/2/16, depositata il 26 maggio scorso dalla Commissione tributaria regionale di Potenza, la quale merita indubbia evidenza dal momento che si pone in netta discordanza con quello che, fino ad oggi, rappresenta l’orientamento maggioritario in materia.

Partendo dalla norma relativa al giudizio di prima istanza, non sono pochi i casi in cui, nonostante il dettato legislativo fosse chiaro ed evidente, la controparte del contribuente (sia essa Equitalia, Agenzia delle Entrate, ecc.) provvede al deposito dei documenti oltre il termine stabilito dall’art. 32, arrivando, in alcuni casi, ad esibirli addirittura in sede di udienza.

Un simile comportamento viene giustificato sul presupposto che, a parere di quest’ultima, la prescrizione di cui all’art. 32 già citato non avrebbe, in realtà, carattere perentorio bensì ordinatorio, tenendo conto che il legislatore, nel prosieguo della norma,  piuttosto che con l’aggiunta di un comma successivo, non si è minimamente preoccupato di prevedere una certa qual sanzione di nullità nel caso di inosservanza al limite temporale.

Su tale punto, ad ogni modo, non ci sarebbe da soffermarsi molto se si considera che la Corte di Cassazione, ormai in più occasioni, ha avuto modo di chiarire come la produzione documentale effettuata oltre i termini previsti dalla normativa processual tributaria, non può che considerarsi nulla, o, se vogliamo usare un linguaggio più giuridico, “tamquam non esset”.

Già in tempi non sospetti, infatti, i Giudici di Piazza Cavour hanno affermato come “In tema di contenzioso tributario, il termine previsto dall’art. 32 del D. Lgs. 31 dicembre, n. 546, per il deposito di memorie e documenti (applicabile anche al giudizio di appello in virtù dell’art. 58, secondo comma, D. Lgs. cit.) deve ritenersi perentorio, pur non essendo dichiarato tale dalla legge, in quanto diretto a tutelare il diritto di difesa della controparte ed a realizzare il necessario contraddittorio tra le parti, e tra queste ed il Giudice..ne consegue che la mancata osservazione del detto termine determina la preclusione di ogni ulteriore attività processuale, senza che assuma alcun rilievo, in contrario, la circostanza che la controparte si sia costituita in giudizio senza nulla eccepire al riguardo.”(Cass. Sez. V, n. 1771 del 30.01.2004).

Con riferimento a ciò, non bisogna dimenticare inoltre che l’art. 32 entra in gioco anche ogni qual volta l’amministrazione finanziaria piuttosto che un diverso ente impositore decidano di costituirsi in giudizio al di là del termine previsto dall’art. 23 del già citato D. Lgs. n. 546/92.

Tale disposizione, rubricata appunto “Costituzione in giudizio della parte resistente”, prevede che “ L'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti all'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale.

Sul punto, credo sia del tutto superfluo ricordare che il termine di cui sopra, a differenza di quello oggetto della nostra analisi, è un termine ordinatorio e non perentorio, con la conseguenza che, nel processo tributario, la costituzione in giudizio della parte resistente potrebbe in teoria avvenire finanche in sede di udienza.

Altro problema, però, è capire le preclusioni cui va incontro la parte non costituita nei termini di cui all’art. 23 predetto, in relazione a ciò che attiene l’esercizio dei poteri e delle facoltà processuali.

Se è vero infatti che nessuno vieta all’amministrazione, come a qualsiasi altro ente impositore, di costituirsi oltre il termine dei sessanta giorni dalla data di ricezione del ricorso, altrettanto vero è che una simile scelta incontra, inevitabilmente, dei limiti ben definiti in termini di esercizio delle facoltà processuali, fra cui, appunto, quella di poter depositare documenti.

Proprio a tal proposito, l’egregio Prof. Russo, nel suo Manuale di diritto tributario, così scriveva: “..Si deve ribadire il principio per cui chi si costituisce tardivamente non può che entrare nel processo nello stato e grado in cui si trova e, poiché è certo che nel processo tributario, come in ogni processo ben disciplinato, i poteri processuali devono essere esercitati, nello stesso interesse del corretto sviluppo del contraddittorio fra le parti su basi di parità, entro termini ben stabiliti a pena di preclusione, la costituzione tardiva comporta il rischio di non potere più esercitare alcuni poteri processuali..(..)..Si pensi ad esempio al termine per il deposito dei documenti o per la chiamata in giudizio di un terzo ovvero, ancora, al termine per la proposizione di eccezioni riservate alla parte. Tutti questi poteri sono soggetti a termini di decadenza, cosicché la parte che si sia costituita successivamente al decorso degli stessi non potrà più esercitarli. Al limite, quindi, la parte resistente che si costituisca immediatamente prima dell’udienza potrà solo partecipare alla discussione limitandosi a constatare genericamente le affermazioni del ricorrente.”.**

Del resto, la stessa Corte di Cassazione – Sez. Trib. – in concomitanza della sentenza n. 3467 del 24.01.2008, per quanto abbia espressamente escluso la nullità dell’atto difensivo in caso di costituzione tardiva della parte resistente, tuttavia, non ha escluso la possibilità di come l’inosservanza del termine di cui all’art. 23 da parte dell’Amministrazione finanziaria (ovviamente da intendersi esteso a tutti i potenziali resistenti) comporti inevitabilmente la decadenza dalla possibilità di chiedere o svolgere attività processuali eventualmente precluse(in tal senso Corte di cassazione, sentenza n. 21212/2004; n. 5645/2006, n. 6380/2006; n. 22010/2006).

Quanto appena esposto serve a farci capire come, in realtà, il termine di cui all’art. 32, rappresenti un momento estremamente cruciale nelle dinamiche del processo tributario, considerando che, oltre al fatto di segnare il limite al di là del quale i documenti non possono ritenersi ammissibili,  costituisce, per la parte resistente, un crocevia fondamentale da tenere bene a mente nella scelta del momento entro cui costituirsi in giudizio.

Orbene, tornando al tema principale della nostra analisi, possiamo, a questo punto, spostare l’attenzione sulla norma che si occupa di regolare il deposito di documenti nella fase successiva al primo grado del giudizio, vale a dire nella fase di appello.

Come già illustrato in precedenza, l’art. 58 del D. Lgs. n. 546/92, al secondo comma, prevede la facoltà per le parti di produrre nuovi documenti nel giudizio di seconde cure.

A tal proposito, si ritiene importante precisare, però, che la norma in esame rappresenta il periodo successivo della disposizione che disciplina la produzione di nuove prove in appello, laddove al primo comma, appunto, dell’art. 58 citato, il legislatore ha previsto che “Il giudice d’appello non può disporre nuove prove salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute produrre per cause ad essa non imputabili.”.

In effetti, un’analisi approfondita della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 58, non può prescindere dal tenere in considerazione quanto statuito al comma precedente; ciò, in funzione del fatto che gli effetti di quest’ultimo inevitabilmente si ripercuotono sulla corretta interpretazione del comma successivo.

Volendo sintetizzare, i problemi relativi all’applicazione della norma che disciplina il deposito di documenti nella fase d’appello del rito tributario, sono essenzialmente due:

  1. Che cosa voleva intendere il legislatore del 92’ per “nuovi documenti”?
  2. In che misura, in un processo come quello tributario, che sappiamo tutti essere un processo prettamente “documentale”, la facoltà riconosciuta alla parte di produrre documenti in appello non collide con la disposizione precedente che invece vieta, sempre a quest’ultima, di produrre nuove prove?

La risposta ai nostri interrogativi, a parere di chi scrive, ci viene data dallo stesso legislatore, ed è assolutamente estraibile da un’accurata nonché attenta analisi dell’art. 58 nel suo complesso.

Quando, infatti, leggiamo che ..Il Giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini del giudizio o che la parte dimostri di non averle potute produrre per causa ad essa non imputabile, è del tutto agevole rendersi conto della circostanza per cui, il legislatore, null’altro volesse affermare se non che la prova non prodotta in primo grado (nel processo tributario le prove sono rappresentate esclusivamente da documenti), non è producibile nel grado successivo, a meno che la parte dimostri di non averla potuta produrre per causa ad essa non imputabile.

Ora, considerato che nel processo tributario le prove sono rappresentate solo ed esclusivamente da documenti,  è giocoforza concludere nel senso che, per il legislatore, anche il documento non esibito in primo grado non può che ritenersi nullo qualora esibito nel giudizio successivo, salvo che, appunto, la parte dimostri di non aver potuto produrre quel particolare documento perché non ancora nella sua disponibilità (in questo caso, assumerebbe rilievo l’elemento della novità) o per qualsiasi causa non attribuibile alla propria responsabilità.

Ragionare diversamente, del resto, equivarrebbe a consentire, alla parte interessata (intendendo per tale anche il contribuente), di aggirare, ogniqualvolta ve ne fosse bisogno, il divieto posto dal primo comma dell’art. 58, strumentalizzando, a proprio favore, il dettato normativo del comma successivo.

Tradotto in parole povere, l’amministrazione finanziaria, o qualsiasi altro ente impositore, potrebbe addirittura decidere, in maniera arbitraria, di vincere o perdere il primo grado a seconda della convenienza, o, ancora peggio, di perdere in primo grado con la consapevolezza, già a priori, di vincere in appello, magari finendo per irridere lo stesso contribuente per la gioia effimera di una vittoria di pirro.

Dal quadro che precede, emerge quindi in maniera chiara e definitiva come l’intento del legislatore, nel predisporre il comma 2 dell’art. 58, non era sicuramente quello di consentire alla controparte del contribuente di poter manipolare il processo a proprio piacimento, rinvenendo, al contrario, lo stesso nella volontà di concedere ad entrambe le parti la possibilità di esibire, in fase di gravame, quei documenti, rectius quelle prove, di cui le stesse non erano in possesso, o, che pur avendole, non avevano potuto produrle nel giudizio precedente per circostanze estranee alla propria responsabilità.

Per concludere il nostro approfondimento, è doveroso segnalare, infine, che solo pochi giorni fa la Commissione tributaria regionale di Potenza, con la sentenza n. 255/2/16, ha affrontato in maniera a dir poco “eccellente” il dilemma relativo all’esatta interpretazione dell’art. 58, comma 2, del D. Lgs. n. 546/92.

La vicenda giunta al vaglio del giudice d’appello lucano, riguardava l’impugnazione di un avviso di accertamento notificato ad un professionista esercente l’attività di geometra, mediante il quale gli si contestava un maggio reddito professionale con conseguente richiesta di maggiori imposte non versate.

Il contribuente, nel sollevare ricorso, eccepiva, fra gli altri motivi, la nullità dell’atto per violazione dell’art. 42 del D.p.r. n. 600/73, non avendo, l’ufficio, allegato all’atto impositivo il provvedimento dal quale potesse evincersi che il soggetto firmatario dell’atto fosse stato effettivamente delegato dal proprio superiore alla sottoscrizione, in ossequio a quanto previsto dalla legge.

L’agenzia delle entrate, a fronte della contestazione, esibiva il provvedimento, la cui esistenza era oggetto di doglianza, solo in occasione dell’udienza di discussione.

Alla luce di un tale comportamento, la Commissione provinciale di Potenza accoglieva il ricorso sul presupposto della tardività dell’esibizione della delega, condannando oltretutto l’amministrazione finanziaria alla refusione delle spese di lite liquidate in € 1.500.

Avverso tale decisione ricorreva in appello l’ufficio, il quale, in maniera del tutto ambigua, provvedeva al deposito della delega non ammessa in primo grado, avendo cura di precisare come: “..A siffatta produzione documentale non osta alcuna preclusione processuale, atteso il disposto dell’art. 58 del D. Lgs. n. 546/92, ai sensi del quale per la produzione delle prove documentali non opera il principio della novità”.

Una tale tesi, però, non ha convinto i Giudici del gravame lucani, i quali, nel rigettare l’appello, hanno sdoganato un importante principio di diritto (in netta controtendenza con l’orientamento maggioritario), secondo cui: “Il secondo comma del citato articolo 58 non è volto a sanare comportamenti omissivi delle parti ma solo a garantire la correttezza del procedimento cosicché non è possibile ammettere il deposito di documenti, tra l’altro come nel caso tardivamente depositati in primo grado, in quanto gli stessi non possiedono il requisito della novità ed erano nella disponibilità della parte, trattandosi di delega di firma, già prima della notifica dell’atto accertativo..(..)..Ragionare diversamente e riconoscere comunque l’ammissibilità in grado di appello di qualsivoglia documento, non esibito ovvero tardivamente esibito in primo grado, significherebbe attuare una incomprensibile compressione del diritto di difesa nel momento in cui quel documento avrebbe consentito la proposizione di motivi aggiunti nel procedimento di primo grado. Il contribuente verrebbe privato di un grado di giudizio non essendo possibile in appello, dalla parte resistente, introdurre motivi nuovi rispetto a quelli proposti con il ricorso introduttivo del giudizio.”.

A parere della Corte lucana, quindi, la previsione dell’art. 58, comma 2, D. Lgs. n. 546/92, deve ritenersi applicabile esclusivamente a quei documenti di cui la parte non era in possesso in primo grado, o, comunque, a quei documenti che non integrano, in alcun modo, un elemento di prova nuovo rispetto a quelli già forniti, ma che, al contrario, rappresentano una mera integrazione di tutte le prove già offerte nella prima fase del giudizio.

L’auspicio di chi scrive è che il principio delibato nella sentenza in esame riesca, in qualche modo, a trovare conferma anche nelle future pronunce che, d’ora in avanti, si occuperanno della spinosa questione relativa alla produzione di documenti (già disponibili in primo grado) nella fase di appello del giudizio tributario.

Ma l’auspicio ancora più grande, è quello di assistere ad un vero e proprio intervento di riforma del comma 2 dell’art. 58, affinché il legislatore, al fine di eliminare qualsiasi dubbio in merito alla corretta applicazione di questa norma, individui, una volta per tutte, con terminologia precisa e risolutiva, cosa debba intendersi per “nuovo” documento!

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