processo tributario

SPESE PROCESSUALI - INIBITO IL RICHIAMO A FORMULE DI STILE PER GIUSTIFICARE LA COMPENSAZIONE

20/05/2016


Chi esercita la professione di difensore tributario è sicuramente a conoscenza del fatto che, almeno sino a poco tempo fa, le sentenze con le quali i Giudici di merito accoglievano i ricorsi dei contribuenti difficilmente si concludevano con l’addebito delle spese processuali a carico dell’Amministrazione finanziaria, se non in casi eccezionali.

Allo stesso modo, un “diligente” difensore tributario, dovrebbe essere al corrente della circostanza per cui, in realtà, anche prima della recente riforma (se così possiamo definirla) del contenzioso tributario, operata con il D. Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, lo strumento della compensazione delle spese di lite rappresentava pur sempre una deroga al principio generale in base al quale “..La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio, che sono liquidate con la sentenza.”.

Ricordiamo, infatti, che il vecchio art. 15, comma 1, del D. Lgs. n. 546/92, che si occupava e si occupa tuttora (nella nuova versione) delle spese del giudizio tributario, consentiva al Giudice la facoltà di poter compensare, appunto, tali spese, in virtù del richiamo normativo all’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile.

Tale disposizione, prevede, testualmente, che “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.”.

Nonostante, però, la norma processualcivilistica sia abbastanza precisa oltreché perentoria, la quasi totalità dei Collegi tributari, anche nei casi di “ordinaria” soccombenza unilaterale, ha sempre preferito mantenere un c.d. atteggiamento “neutrale” sulla questione delle spese, utilizzando, per giustificare la propria posizione, delle formule di stile formali non coincidenti, purtroppo e il più delle volte, con la realtà sostanziale.

Sono numerosi i casi in cui è agevole assistere a delle sentenze di accoglimento del ricorso che concludono con delle frasi del tipo “..Sussistono giusti motivi per compensare le spese”, oppure, “..La particolarità della questione trattata induce a ritenere giusta la compensazione delle spese”, o, ancora, “..Accoglie l’appello del contribuente e dichiara compensate le spese”, e così via.

Insomma, tutte formule di puro stile che nulla hanno a che vedere con quanto prescritto dal legislatore all’art. 92 del regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443, il quale, ben lungi dal voler consacrare la compensazione delle spese come regola “generale” del processo, si prefiggeva l’obiettivo di individuare quali fossero, invece, le ipotesi eccezionali e residuali in cui il Giudice poteva derogare alla regola generale anche nell’ipotesi in cui non vi fosse soccombenza reciproca.

La particolarità della questione, proprio alla luce del costante ed acceso dibattito presente in dottrina, ha raggiunto livelli tali da sensibilizzare, da ultimo, lo stesso legislatore delegato, il quale, con il D. Lgs. n. 156 già citato, ha provveduto ad apportare innovative modifiche anche alla norma dedicata alla regolazione delle spese processuali.

Ed infatti, quello che prima rappresentava un principio operante in virtù di un richiamo ad un altro testo di legge, è diventato ora norma processual – tributaria espressa, laddove, all’art. 15, comma 2, del D. Lgs. n. 546/92 post riforma, si prevede che “..Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate.”.

La novella apportata all’art. 15, rappresenta, a parere di chi scrive, il chiaro e manifesto intento del legislatore di porre fine a quel fenomeno diffuso ormai da tempo presso le commissioni tributarie, consistente nell’abitudine di compensare le spese di giudizio a prescindere dall’esistenza o meno dei requisiti richiesti dalla legge.

Fenomeno, che se analizzato nel concreto, finisce per snaturare del tutto la vera essenza del principio per cui nel processo “chi perde paga”, la cui funzione, sembra chiaro ed evidente, è proprio quella di precostituire un deterrente contro le azioni, sia del contribuente sia dell’amministrazione, temerarie e/o infondate.

Proprio pochi giorni fa, su tale questione si è pronunciata finanche la Corte Suprema, con la sentenza n. 9715 del 12.05.2016.

Il caso riguardava un procedimento instaurato da una società a cui era stato recapitato un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati, il quale, in entrambi i giudizi di merito, si concludeva a favore della ricorrente, senza però che alla stessa venisse riconosciuto alcunché in merito alle spese processuali.

Proprio al fine di contestare tale rilievo, la società decideva di ricorrere in Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 15, D. Lgs. n. 546/92 nonché dell’art. 92, comma 2, del c.p.c., adducendo che “erroneamente il giudice del merito aveva compensato le spese di giudizio sulla scorta del semplice richiamo a giusti e fondati motivi”, ritenendo quest’ultima una motivazione di puro stile e sostanzialmente tautologica.

Doglianza che ha condiviso in pieno il Collegio di legittimità, il quale, nel censurare la sentenza di merito, ha richiamato un principio già consolidato in giurisprudenza, in base al quale “In tema di spese giudiziali, le gravi ed eccezionali ragioni, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, in presenza delle quali, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., comma 2,(nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2), il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio non possono essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato nè dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa.”.

La pronuncia in questione dovrebbe, almeno in teoria, rappresentare un forte passo in avanti e un solido punto di riferimento per tutti quei giudici di merito che quotidianamente si trovano a decidere, sentenza dopo sentenza, anche, e direi soprattutto, sull’annosa questione della condanna alle spese.

Assistere, dopo l’illustrato intervento del legislatore e/o della decisione in esame, a scene come quelle viste finora, significherebbe sminuire, ancora una volta, il valore del processo tributario, in piena discordanza con quelle che sono le indicazioni che ormai da più parti sopraggiungono circa l’importanza e la delicatezza di un giudizio che, in non pochi casi, condiziona le sorti di un’intera azienda e, di conseguenza, di migliaia di famiglie.

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