avvisi di accertamento

SOCIETÀ ESTEROVESTITA: NECESSARIA LA PROVA DEL VANTAGGIO FISCALE

31/03/2022


Con una recente ordinanza la Suprema Corte di Cassazione (Ord. 15/03/2022, n. 8297) è tornata ancora una volta a delineare i confini del fenomeno riguardante la c.d. esterovestizione.

Avallando l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, i Giudici di legittimità hanno specificato che “in tema di imposte sui redditi ricorre l’ipotesi di esterovestizione allorché una società, la quale ha nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione, da intendersi come luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’attività di impresa e dal quale promanano le relative decisioni, localizzi la propria residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa (Cass., 21 giugno 2019, n. 16697).

In altri termini, per esterovestizione si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, esclusivo, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale (Cass. 7 febbraio 2013, n. 2869).

Affinché questo meccanismo risponda alla nozione di pratica abusiva occorre, per un verso, che esso abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di siffatto vantaggio fiscale (cfr. Corte giust. 17 dicembre 2015, causa C- 419/14, WebMindLicenses Kft, punto 36).

Di per sé, infatti, per costante orientamento della giurisprudenza europea (Corte giust. 12 settembre 2005, in causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas), in tema di libertà di stabilimento, le circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé stessa un abuso di tale libertà”.

Una restrizione alla libertà di stabilimento deve allora avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale (cfr. Cass. 21 dicembre 2018, n. 33234).

Lungi dall’essere sufficiente un’applicazione dei criteri generali predeterminati, occorre dunque “passare in rassegna la singola operazione”, rivelandosi necessario accertare che lo scopo essenziale di una specifica operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale.

Quanto detto trova la sua giustificazione proprio nel fatto che “quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale”.

In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in diretto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass., 7 febbraio 2013, n. 2869).

Se infatti deve esse sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale (Cass. gennaio 2015 n. 439; cfr. anche 19 febbraio 2014, n. 3938), tale libertà incontra tuttavia il limite dell’uso distorto degli strumenti giuridici, come nelle ipotesi in cui l’operazione difetti di ragioni economicamente apprezzabili, diverse, appunto, dalla mera aspettativa di benefici fiscali.

Nel caso di seguito analizzato, ad avviso della Suprema Corte i Giudici di secondo grado non avrebbero malgovernato i principi di diritto in materia, allorquando hanno rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate affermando che la stessa non si fosse neppure preoccupata di prospettare che la holding - attraverso la esterovestizione quale società di diritto lussemburghese - perseguisse come obiettivo assoluto o preponderante il conseguimento di un vantaggio fiscale.

 IL CASO

Il caso in esame ha visto l’Amministrazione finanziaria ricorrere in Cassazione avverso la sentenza della CTR Lombardia, la quale – condividendo nel merito quanto statuito dalla CTP di Milano – aveva rigettato l’appello promosso dalla stessa.

Più nel dettaglio, la vicenda traeva origine dalla notifica ad una holding (capogruppo) dell’avviso di accertamento scaturito dalla verifica operata dai militari della GdF con cui veniva rideterminato l’imponibile dell’anno 2005 ai fini IRES ed IRAP.

In particolare, all’esito di tali controlli era stato rilevato che la società, formalmente di diritto lussemburghese, fosse “di fatto” residente in Italia, per cui l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto ad inquadrare la fattispecie nel fenomeno della c.d. esterovestizione, pretendendo in ragione di ciò maggiori imposte, oltre che interessi sanzioni.

La società, contestando gli esiti dell’accertamento, era dunque ricorsa innanzi alla CTP di Milano, la quale aveva annullato l’avviso di accertamento.

In seguito, come anticipato, l’appello dell’Agenzia delle Entrate veniva anch’esso rigettato dalla CTR Lombardia per il tramite della sentenza oggetto d’impugnazione in seno al Collegio di Piazza Cavour.

Ad avviso dei Giudici di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate, seppur denunciando un’operazione elusiva, non aveva minimamente evidenziato i vantaggi fiscali perseguiti con la presunta esterovestizione, e neppure poteva ritenersi che la documentazione acquisita nel corso della verifica (contestata dalla contribuente) comprovante lo svolgimento di servizi amministrativi in Italia da parte della società, fosse nel complesso sufficiente a dimostrare l’esterovestizione, sussistendo di contro altri elementi idonei a confermare l’effettivo svolgimento all’estero dell’attività sociale.

Per quanto concerne il motivo di doglianza di interesse per tale trattazione, l’Agenzia delle Entrate ha eccepito la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 73, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 4, paragrafi 1 e 3, della Convenzione stipulata tra l’Italia e il Lussemburgo sulle doppie imposizioni, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto necessaria la prova del carattere elusivo dell’esterovestizione, in assenza della prospettazione del vantaggio fiscale conseguito dalla società.

LA DECISIONE

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, condannando di fatto la stessa alla refusione delle spese del giudizio.

Nel fare ciò, ha statuito quanto segue: “Come correttamente rilevato dalla CTR, a fronte della denuncia di esterovestizione della società, l’Amministrazione non si sarebbe neppure preoccupata di identificare il vantaggio fiscale conseguito o conseguibile con la artificiosa collocazione della sede sociale in Lussemburgo e non in Italia.

Inoltre, congiuntamente alla completa obliterazione della finalità fiscale della costruzione elusiva, i Giudici di secondo grado hanno ritenuto che la documentazione di natura amministrativa da riferirsi alla capogruppo oltre che sporadica e discontinua, in assenza di un palese vantaggio fiscale, appare insufficiente a dimostrare la esterovestizione.

D’altra parte, elementi quali la residenza estera della maggioranza dei consiglieri d’amministrazione, nonché l’imposizione fiscale cui la società è sottoposta in Lussemburgo, proverebbero la tesi dell’effettivo svolgimento all’estero dell’oggetto sociale”.

Conseguentemente - hanno rilevato gli Ermellini - “la motivazione con cui la CTR aveva respinto l’appello del Ufficio non era affatto riconducibile alla sola assenza di prospettazione del vantaggio fiscale conseguibile o conseguito dalla società attraverso l’esterovestizione (di per sé sufficiente!), ma ad una pluralità di elementi, qualiin senso negativo, l’assenza di documentazione atta a provare la direzione amministrativa della Holding, dalla sede italiana, trattandosi di elementi sporadici e discontinui, di contro, in senso positivo, la presenza di elementi che confortano la effettiva collocazione estera della Holding”.

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